Dentisti ‘sentinelle’ contro la violenza sulle donne

Il viso, i denti. Ma anche la lingua e i tessuti molli, come le guance. Con lesioni traumatiche che a volte possono essere ripetute e che dipingono un quadro clinico che non è occasionale. Sono diversi i segni che può lasciare una presunta violenza nei confronti di una donna e per i quali il dentista può essere una ‘sentinella’ importante. Per questo c’è un protocollo d’intesa tra la Fondazione Doppia Difesa Onlus (presieduta da Michelle Hunziker) e l’Associazione nazionale dentisti italiani, Andi, nell’ambito del progetto “Dentista sentinella”. Come spiega il presidente Andi, Carlo Ghirlanda, negli “oltre 60.000 studi odontoiatrici i dentisti vedono ogni giorno molti pazienti” ed è proprio da loro che può partire un’intercettazione precoce degli abusi. Serve però la formazione. “Abbiamo studiato un protocollo di lavoro, creato un corso per la definizione e il riconoscimento precoce – aggiunge Ghirlanda – dai primi di maggio sarà online.
    È importante anche per sapere quali passaggi fare”. Negli studi saranno distribuite 100mila brochure. “Doppia Difesa – prosegue – mette a disposizione un numero, l’ascolto, un riferimento psicologico e anche sotto il profilo legale”.
    “Aiutare le donne vittime a riconoscere le violenze è fondamentale-sottolinea Michelle Hunziker – sminuirle comporta seri rischi per la loro stessa vita”. “Le discipline sulla privacy e sul segreto professionale impongono vincoli all’attivita’ degli odontoiatri, rendendoli testimoni ‘muti’ – rileva Ghirlanda – Per questo abbiamo realizzato il progetto’Dentista sentinella’, voluto fortemente dalle dentiste donne,che ha lo scopo anche di definire una procedura confidenziale di segnalazione alle autorità”. È in via di definizione un percorso con l’interlocuzione con il Dipartimento per le pari opportunità e il Ministero dell’Interno. 

Divorzio: se l’ex moglie non lavora che fare?

Assegno di mantenimento dopo il divorzio: cosa fare se l’ex moglie è disoccupata ma non cerca un posto di lavoro?

La ex moglie non vuol lavorare? Dopo la separazione e il divorzio, non vuol cercare un posto per mantenersi da sola, rassicurata dal fatto che tu stai provvedendo al suo mantenimento? Se davvero le cose stanno così e il suo stato di disoccupazione non dipende piuttosto da fattori estranei alla sua volontà – l’età, le condizioni fisiche, la lontananza per molto tempo dal mondo del lavoro, l’assenza di formazione, ecc. – allora l’assegno di mantenimento può essere tolto. A dirlo è ormai più di una sentenza della Cassazione, l’ultima delle quali di qualche giorno fa.

Da quando la Suprema Corte ha mandato in soffitta il criterio del “tenore di vita” nel calcolo degli alimenti dovuti all’ex e ha detto che tale contributo serve solo ad aiutare colei che, non per propria colpa, non può mantenersi, ai giudici non basta più accertare la differenza di reddito tra marito e moglie per attribuire a quest’ultima il mantenimento dopo il divorzio: serve anche la “certificazione” che abbia tentato di trovare un posto. Ma come? E come fa l’ex marito a dimostrare che la donna se ne sta in panciolle a casa? Cerchiamo di capirlo qui di seguito. Seguendo le stesse istruzioni fornite dalla Cassazione, proveremo a suggerire, in caso di divorzio, che fare se l’ex moglie non lavora. Ma procediamo con ordine.

Quando la moglie disoccupata ha diritto al mantenimento 

Giovane, abile e con un titolo di studi: chi mai crederebbe che una donna con tali prerogative non riesce a trovare, nell’arco di un’anno, anche un semplice part-time? Sì, è vero: c’è la crisi e le difficoltà occupazionali. Nelle zone del Sud, una persona su tre è disoccupata (e di queste gran parte è donna). Ma evidentemente queste generalizzazioni alla Cassazione non interessano. La Corte vuole prove concrete che lo stato di disoccupazione sia incolpevole. Solo a questa condizione riconosce l’assegno di mantenimento. È anche possibile pensare che una ragazza di appena 30 anni non riesca a trovare lavoro – sostengono i giudici – ma cosa ha fatto davvero per cercarlo? Questo lo deve dimostrare lei se vuole ottenere gli “alimenti” dopo il divorzio.

Ecco il punto: la donna ha diritto ad essere mantenuta solo se il suo stato di disoccupazione è incolpevole. Che significa? Che tale disoccupazione non deve dipendere da lei ma da fattori esterni come:

  • lo stato di salute: sarà quindi l’ex moglie a dover dimostrare di avere una patologia che le impedisce di lavorare;
  • l’età: non ci vuole molto a immaginare che una donna che ha superato i cinquant’anni venga più difficilmente assunta, da una azienda, rispetto alla giovane aitante e più motivata ventenne o trentenne. L’avere una “certa età” è sicuramente una difficoltà a volte invalicabile nella ricerca di un posto;
  • la lontananza dal lavoro per molto tempo: sarà sempre la donna a dover provare, al giudice del divorzio, di aver fatto – d’accordo col marito – la casalinga per molti anni e che tale situazione l’ha tenuta fuori dal mercato del lavoro, impedendole di aggiornarsi, di fare carriera, di specializzarsi, ecc.;
  • la crisi occupazionale: sarà ancora una volta l’ex moglie a dover dimostrare – se davvero vuol ottenere l’assegno di mantenimento – che la sua disoccupazione dipende dal mercato. Il che significa che non le basta genericamente appellarsi alle statistiche dell’Istat che danno sempre in crescita il numero degli inoccupati, ma dovrà produrre le prove di aver cercato un posto. Quali sono queste prove? Non basta l’iscrizione alle liste di collocamento, ma anche l’invio del curriculum alle varie aziende, la richiesta di colloqui di lavoro, la partecipazione a bandi e concorsi nel pubblico e nel privato, ecc.

Cosa fare se la moglie non vuole lavorare?

Come avevamo già detto in Separazione con moglie che non lavora, se nel corso del processo di separazione è più facile per la donna ottenere l’assegno di mantenimento, essendo questo orientato a eliminare le disparità di reddito tra i due ex coniugi e garantire a quello più povero (di solito la donna) lo stesso tenore di vita che aveva col matrimonio, con il divorzio tutto cambia. Qui è la donna che deve dimostrare di non essere in grado di mantenersi da sola e di non avere un reddito sufficiente a garantirle l’autosufficienza. Situazione quest’ultima che, come detto, non basta: è necessario anche integrarla con la prova dell’incolpevole stato di disoccupazione.

Qui l’importante novità: non spetta al marito dimostrare che l’ex moglie, dopo la separazione, se n’è stata sul divano. È piuttosto quest’ultima, se non vuol perdere gli alimenti, a dover provare che si è data pena – e non c’è riuscita – nel cercare un’occupazione. Per come abbiamo detto nel paragrafo precedente, l’onere della prova ai fini dell’attribuzione del mantenimento ricade sulla donna. L’uomo non deve fare nulla se non limitarsi ad eccepire che il mantenimento non è dovuto per causa dell’inerzia nel cercare un’occupazione.

Ecco perché, nella sentenza in commento, i giudici hanno ritenuto di negare l’assegno mensile alla moglie per via della sua «capacità lavorativa e reddituale» (legata alla giovane età e alla formazione professionale), capacità che però lei «non ha messo a frutto». Insufficiente la giustificazione della donna basata sul fatto di «essersi iscritta nelle liste di collocamento senza ricevere risposta» e di «essersi dedicata, all’epoca della separazione, all’accudimento dei figli in tenera età»: tutto ciò non è più sufficiente.

Si può revocare il mantenimento? 

E se anche il giudice, in sede di divorzio, dovesse riconoscere all’ex moglie un assegno divorzile, non finisce qua: se il marito dovesse raccogliere, nel futuro, le prove dell’inerzia della donna nella ricerca del lavoro, potrebbe di nuovo chiedere una modifica delle condizioni economiche e quindi dell’ammontare dell’assegno. In verità, la legge dice che tale modifica è concessa solo quando cambiano le condizioni di reddito di uno dei due coniugi, cosa che potrà essere dimostrata ad esempio con una riduzione in busta paga o con l’aumento di spesa collegata all’insorgere di una nuova famiglia o di un nuovo figlio. Quindi, per l’ex moglie, non è mai detta l’ultima parola.

Il primo assegno di mantenimento per una coppia gay

Primo assegno di mantenimento relativo ad un divorzio giudiziario di una coppia costituita da persone dello stesso sesso dopo l’entrata in vigore della legge 20 maggio 2016, n.76, sulle unioni civili. Le due iniziano a convivere nel 2013, una di Pordenone, l’altra veneta. Quest’ultima, con un ridimensionamento della sua carriera, si trasferisce nella città friulana, dove inizia la convivenza, poi il matrimonio, poi le liti, poi il divorzio.
Il Tribunale, con una sentenza innovativa, ai fini della determinazione dell’assegno divorzile, ha espresso importanti principi: è stato preso in considerazione anche il periodo di convivenza che le due donne hanno avuto prima del rito civile, avvenuto nel 2016; è stata presa in considerazione la “perdita di chance”, da parte della donna che aveva trasferito la propria sede di lavoro per seguire la compagna, per il danno lavorativo che ha subito, a seguito del trasferimento a Pordenone e la definizione del suo rapporto di lavoro, in essere nella città in cui risiedeva. Il Tribunale dunque ha ritenuto che in relazione a scelte riconducibili alla vita comune e all’aver accettato di fatto una attività meno remunerata rispetto a quella antecedente alla vita di coppia debba essere riconosciuta la perdita di chance e di opportunità lavorative. Il Giudice ha stabilito un assegno di mantenimento per il coniuge più debole.
Nella speranza che tale sentenza costituisca un riferimento per le decisioni future dei Tribunali in Italia, non solo in relazione ai divorzi tra coppie dello stesso sesso, ma anche per quelle eterosessuali: i Giudici della separazione e del divorzio tra coniugi non riconoscono né il periodo di convivenza, anteriore al matrimonio, né la “perdita di chance” che tante donne subiscono o per seguire i mariti che per lavoro vengono trasferiti o per dedicarsi alla famiglia.

VIOLENZA DOMESTICA

CHE COS’È LA VIOLENZA DOMESTICA. Un grande lavoro fatto dalle donne dei Centri in questi anni è stato non solo di sfatare i miti e i luoghi comuni che circolano, ancora ai nostri giorni, sulle cause della violenza, ma anche di analizzare la violenza domestica nei suoi molteplici aspetti e far conoscere le conseguenze che si riscontrano nelle donne e nei bambini che la subiscono. La violenza domestica è quasi sempre un insieme di aggressioni fisiche, psicologiche e sessuali a cui si accompagnano spesso le deprivazioni economiche. Non sono violenza solo le percosse, le ferite o le ossa rotte, ma anche le minacce, gli insulti, i riscatti, le umiliazioni, la derisione, il prendere la donna per scema o per pazza, spesso in presenza dei figli terrorizzati, l’impedirle d’incontrare i propri amici o familiari e l’imposizione violenta dei rapporti sessuali. Le deprivazioni economiche vanno dal ridurre al minimo il denaro di cui può disporre, al controllo asfissiante sul suo uso, al prosciugamento del conto bancario, al coinvolgimento forzato in spericolate operazioni finanziarie, al mancato pagamento dell’assegno stabilito dal Giudice in sede di separazione legale. Di fronte a questi e ad altri atti di violenza nei confronti delle donne, la società non può fare finta di nulla, intendendo per società non solo le istituzioni, ma anche tutte le cittadine e i cittadini consapevoli. Nessun testimone di violenza può essere giustificato se gira la faccia da un’altra parte.

CONSEGUENZE SU DONNE E BAMBINI. La violenza domestica contro la donna è una violazione dei diritti umani che causa profonde ferite nel suo corpo e nella sua mente. Anche i figli, spesso spettatori passivi e impotenti, restano segnati da questa esperienza traumatica: il loro diritto a vivere e crescere in un ambiente sicuro viene calpestato. Conoscere le conseguenze della violenza domestica può aiutare a capire perché una donna reagisca in un certo modo o perché un/a bambino/a assuma certi comportamenti. Può contribuire a rompere il silenzio che circonda questo fenomeno.

GLI EFFETTI DELLA VIOLENZA DOMESTICA SULLE DONNE. La donna che subisce violenze domestiche richiede interventi sanitari in misura molto maggiore delle altre donne; spesso è costretta a recarsi dal medico o al Pronto Soccorso perché é stata ferita o ustionata, perché ha lividi, fratture, lesioni, perché ha contratto dal partner, marito o compagno, malattie veneree o per abortire, a seguito di violente aggressioni fisiche. Vive nella paura continua di sbagliare, di dire o fare qualcosa che possa scatenare la reazione violenta del maltrattatore; si sente insicura e indifesa. nella propria casa; é perennemente in ansia per sé e per i propri figli; ha disturbi del sonno e della digestione. Gli insulti, le offese, le umiliazioni, le minacce, che spesso precedono o accompagnano la violenza fisica, intaccano giorno dopo giorno la stima di sé, la portano a essere passiva, incapace di prendere decisioni, a cadere nella depressione o a pensare al suicidio; anche queste sono “ferite” che devono essere curate e che richiedono interventi specialistici e tempi lunghi per essere rimarginate. Alcune cercano di minimizzare o negare il problema; altre ricorrono all’uso di alcool o droghe per tentare di sopravvivere alla sofferenza e al dolore di una vita personale e familiare distrutta. A tutto questo si sommano spesso danni materiali: molte donne hanno rinunciato ad un’occupazione fuori casa per accudire ai figli, altre devono frequentemente assentarsi dal lavoro o addirittura lasciarlo – a seguito di attacchi particolarmente violenti o perché insultate e minacciate anche di fronte a colleghi o datori di lavoro – e si ritrovano così totalmente dipendenti dal partner, escluse, limitate o controllate nell’uso del denaro a disposizione in famiglia. Se poi decidono di separarsi, alla sofferenza e al dolore per una relazione fallita e finita, si aggiungono le difficoltà materiali per pagare le spese di una separazione (che in una situazione di violenza può essere lunga e difficile), per far fronte a impegni economici non voluti, spesso assunti sotto minacce o costrizioni, per trovare o ri-trovare lavoro, con la prospettiva reale di perdere il tenore di vita precedente. Ciascuna donna reagisce in modo diverso, ma tutte soffrono della solitudine e dell’indifferenza sociale: spesso non vengono credute, perché il loro partner, fuori della famiglia, è una persona “normale”, insospettabile, perdono le loro amicizie, si sentono sole, piene di dubbi, di vergogna e di sensi di colpa. É importante Ascoltare la donna e credere a quello che dice; questo contribuisce a rompere l’isolamento. Non giudicarla e darle fiducia; questo contribuisce a ridarle forza e stima di se stessa. Indirizzarla a un Centro antiviolenza specializzato; insieme ad altre donne potrà decidere come uscire dalla violenza e riappropriarsi della propria vita.

GLI EFFETTI DELLA VIOLENZA DOMESTICA SUI FIGLI. Assistere a episodi di violenza del padre contro la madre è per un/a bambino/a un’esperienza traumatica, da cui viene segnato/a profondamente. Può essere ferito/a nel tentativo di proteggere la madre o può essere vittima diretta della violenza. Ma anche quando non viene coinvolto/a direttamente, vive nell’incertezza, nella tensione, nella paura; non capisce che cosa stia accadendo, si sente impotente e spesso pensa di essere la causa della violenza. Anche se non è detto che diventerà un/a adulto/a che esercita o subisce violenza, è dai genitori che impara come muoversi nel mondo, come comportarsi con gli altri: a volte si identifica col padre maltrattante, perché percepito più forte e tende a disprezzare la madre; a volte si assume responsabilità da adulto/a, cercando di proteggere la madre o i fratelli dalle aggressioni. Ciascuno/a reagisce in modo diverso, a seconda della frequenza e dell’intensità degli attacchi, della sua età e del suo sesso, ma l’aver assistito, magari nella stessa stanza, alla violenza del padre contro la madre, avrà gravi, indelebili conseguenze sul suo sviluppo emotivo e cognitivo. Alcuni esprimono rabbia e aggressività: è così che hanno imparato a reagire ai conflitti. Altri si chiudono in se stessi, si isolano e diventano eccessivamente passivi: è così che hanno imparato a evitare le esplosioni di violenza. Hanno problemi di sonno, disturbi dell’alimentazione, difficoltà a scuola. Per gli adolescenti, poi, la conquista dell’autonomia e la capacità di controllare le proprie emozioni diventano estremamente difficili in un contesto di violenza familiare: i ragazzi e le ragazze possono cercare di fuggire dalla situazione e dai problemi con l’uso di alcol e droghe o con matrimoni e gravidanze precoci, o rifiutare la scuola, o comportarsi in modo aggressivo fino alla delinquenza; possono soffrire di ansia e depressione ed arrivare a pensare al suicidio. La violenza domestica, insomma, priva i figli di un ambiente sicuro in cui giocare, crescere e vivere serenamente la propria infanzia e la propria adolescenza. É importante: Ascoltare il bambino o la bambina e credere a ciò che dice: forse è la prima volta che parla di questo terribile segreto. Rassicurarlo/a: quello che succede in casa non è colpa sua. Aiutare e sostenere la madre: questo è spesso un modo efficace per proteggere anche i figli.

Bullismo omofobico e Cyberbullismo

Il fenomeno del bullismo e del bullismo omofobico è certamente preoccupante, in particolare nelle scuole e sui social network, con i conseguenti tristi episodi di cronaca di giovani vittime suicide.

Il sistema giuridico italiano non fornisce una definizione del bullismo e nemmeno la giurisprudenza lo ha, al momento, elaborato. Il bullismo è sempre stato considerato sotto il profilo psicologico e non come una fattispecie avente rilevanza giuridica, ed è strettamente connesso al fenomeno del mobbing, che concerne le vessazioni in ambito lavorativo: la dottrina lo definisce anche “mobbing in etè evolutiva”.

Così come non esiste un concetto giuridico di bullismo, tanto meno è stato formulato giuridicamente il concetto di bullismo omofobico: non esistono in Italia, infatti, ad oggi nè un reato di omofobia nè un’aggravante per motivi omofobici connessa ad altri reati.

Come tutelare le vittime di bullismo?

In ogni caso è possibile, per tutelare le vittime di bullismo, applicare singolarmente alcuni istituti già esistenti nel nostro sistema legale.

I reati che si riferiscono a comportamenti tipici del bullo (o del gruppo di bulli) possono essere:

  • percosse (art. 581 codice penale)
  • lesioni personali (art. 582 c.p.)
  • rissa (art. 588 c.p.)
  • ingiuria (art. 594 c.p.)
  • diffamazione (art. 595 c.p.)
  • violenza sessuale (art. 609 bis e ss. c.p.)
  • sequestro di persona (art. 605 c.p.)
  • violenza privata (art. 610 c.p.)
  • minaccia (art. 612 c.p.)
  • atti persecutori (art. 612 bis c.p.)
  • molestie (art. 660 c.p.)
  • furto (art. 624 c.p.)
  • rapina (art. 628 c.p.)
  • estorsione (art. 629 c.p.)
  • danneggiamento (art. 635 c.p.)

Vi sono poi forme di prevaricazione più sottile, come l’isolamento della vittima o la derisione continua della medesima (“bullismo relazionale”): il bullismo infatti non è solo violenza estrema, ma anche quotidiano stillicidio di umiliazioni e di esclusioni.

Il Cyberbullismo

Si parla di cyber-bulling quando le prevaricazioni sono poste in essere o amplificate attraverso l’uso di strumenti e dispositivi elettronici e tecnologici, quali email, sms, mms, social networks (facebook, youtube etc.).
Un’importante caratteristica del bullismo, da un punto di vista giuridico, è che il fenomeno non è da ricondurre a condotte aggressive individuali, ma riflette dinamiche di gruppo, più complesse da contrastare.
Il bullismo non deve essere confuso con qualsivoglia atto aggressivo, in quanto l’essenza del bullismo sta nel suo carattere relazionale nello scopo prevaricatorio del bullo. Il bullismo è sistematico: continuo e non occasionale.

La tutela della vittima di bullismo dovrà pertanto abbracciare due diverse ambiti oltre al sostegno psicologico si dovrà intraprendere la strada legale della denuncia nei tempi e modi previsto dalla legge per i singoli reati subiti.

Discriminazione nel mondo del lavoro: mobbing e omonegatività

In questo articolo vediamo quali sono gli strumenti per proteggersi da Mobbing, omonegatività e discriminazioni nell’ambito lavorativo.

Leggi Italiane contro la Discriminazione nel mondo del lavoro

In ambito lavorativo, in particolare, il D.Lgs. 216/2003 fa specifico riferimento (art. 3 co. 1) alle seguenti aree:

  • accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione;
  • occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di carriera, la retribuzione e le condizioni del licenziamento;
  • accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale, perfezionamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini professionali;
  • affiliazione e attività nell’ambito di organizzazioni di lavoratori, di datori di lavoro o di altre organizzazioni professionali e prestazioni erogate dalle medesime organizzazioni.

Cos’è il Mobbing

Le violenze, le aggressioni – anche verbali – e i maltrattamenti subiti sul luogo di lavoro prendono normalmente il nome di mobbing.
Le forme che il mobbing può assumere, anche al di fuori di un contesto prettamente lavorativo, nei confronti della vittima possono consistere in pressioni o molestie psicologiche, calunnie sistematiche, maltrattamenti verbali ed offese personali, minacce o atteggiamenti miranti ad intimorire ingiustamente o avvilire, anche in forma velata ed indiretta, critiche immotivate ed atteggiamenti ostili, delegittimazione dell’immagine, anche di fronte a colleghi ed a soggetti estranei all’impresa, ente o amministrazione.

Inoltre il mobbing può consistere altresì in forme di esclusione o immotivata marginalizzazione dell’attività lavorativa ovvero svuotamento delle mansioni, nell’attribuzione di compiti esorbitanti o eccessivi, e comunque idonei a provocare seri disagi in relazione alle condizioni psicologiche e fisiche della vittima, attribuzione di compiti dequalificanti in relazione al profilo professionale posseduto, impedimento sistematico ed immotivato all’accesso a notizie ed informazioni inerenti l’ordinaria attività di lavoro, marginalizzazione immotivata della vittima rispetto ad iniziative formative, di riqualificazione e di aggiornamento professionale, esercizio esasperato di forme di controllo nei confronti della vittima, idonee a produrre danni o seri disagi, atti vessatori correlati alla sfera privata del lavoratore consistenti in discriminazioni.

L’Omonegatività sul lavoro

Nel D.Lgs. 216/2003 il legislatore non parla di mobbing ma di molestie in ambito lavorativo (art. 2 comma 3) assimilandole alle discriminazioni definendole in modo puntuale come “comportamenti indesiderati” posti in essere per discriminare in via diretta o indiretta “aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo”, quello che spesso viene definito come un “clima di omonegatività sul lavoro”.

Adozione con maternità surrogata

È possibile adottare il figlio del compagno concepito con maternità surrogata?

La risposta è sì.

Ma attenzione, ciò che il Tribunale riconosce non è l’adozione da parte di una coppia gay, ma riconosce l’adozione in casi particolari come previsto già nell’art. 44 della L.184 del 1983 sulle adozioni. Il suddetto articolo prevede la possibilità che il genitore non biologico adotti il figlio naturale o adottivo dell’altro nel caso in cui l’altro genitore sia morto o rinunci alle sue prerogative. Va sottolineato che il termine coniuge viene inteso in modo generico relativamente al sesso.
Solo però con la sentenza n. 299/2014 del Tribunale dei Minorenni di Roma che ha riconosciuto ad una donna il diritto di adottare la figlia della propria compagna, si comincia a parlare della possibilità di adottare il figlio del proprio compagno omosessuale.

Il tribunale con le proprie sentenze ancora una volta corre più veloce del Legislatore colmando in via interpretativa il vuoto normativo.
Questo trend positivo trova la sua giustificazione nella società e nel modo in cui questa interpreta i concetti di famiglia, di matrimonio e di coppia. Ad essere ritenute degne di tutela, quindi, non sono solo le famiglie fondate sul matrimonio, ma anche quelle che, comunque, costituiscono una formazione sociale idonea a consentire e a favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione (Corte Costituzionale n. 138/2010).
Il Tribunale dei Minorenni di Roma con più sentenze in merito, proprio applicando il principio sopra indicato e previsto nell’art. 44 della legge sulle adozioni, ha riconosciuto l’adozione dei figli da parte del partners omosessuale del genitore naturale.
Il Tribunale, infatti, ha posto la sua attenzione, sul fatto che ciò che deve spingere il Giudice a prendere una decisione in merito alla adottabilità del figlio del compagno omosessuale non sia il pregiudizio in parte diffuso nella società, ma il benessere e la tutela di un sano sviluppo psicologico del minore. Il Tribunale, infatti, quale organo superiore di tutela del benessere psicofisico dei bambini, non può e non deve aderire stigmatizzando una genitorialità “diversa”, ma parimenti sana e meritevole di essere riconosciuta in quanto tale.

Adozione Legittimante e Adozione “semi-piena”

In Italia, infatti, accanto all’adozione c.d. legittimante, abbiamo l’adozione “semi piena” o in casi particolari.

Con la l’adozione legittimante, il figlio adottivo diventa figlio della coppia adottante, come se fosse legittimo (ecco perchè si chiama legittimante) o, come si dice oggi, figlio nato nel matrimonio e gli adottanti devono essere in possesso di alcuni requisiti.
Successivamente all’adozione legittimante:

  •  l’adottato sostituisce il proprio cognome, con quello dei genitori adottivi e lo può trasferire ai propri figli;
  • come già detto, si costituisce un rapporto di filiazione a 360° fra figlio e genitori adottivi e conseguentemente,
  • l’adottato acquista la parentela con tutti i componenti della famiglia dei genitori adottivi;
  • ne consegue che ogni legame giuridico fra adottato e la sua famiglia d’origine (biologica) viene definitivamente troncato, sopravvivono solo i divieti matrimoniali.

L’adozione in casi particolari, lo dice la sua stessa dizione, è concessa solo in casi ben precisi e tassativamente indicati dalla legge, nel senso che non possono essere aggiunti, neanche in via interpretativa, altri.
E’ stata prevista per favorire il consolidamento dei rapporti tra il minore e i parenti o le persone che già se ne prendono cura, così da proteggere il minore stesso, anche se non sussistono tutti i requisiti per l’adozione legittimante.
Non sono, quindi, richiesti i requisiti stringenti per quest’ultima adozione e, di conseguenza, non ne vengono neanche riconosciuti tutti gli effetti: ecco perchè l’adozione in casi particolari viene anche chiamate “semi piena”.

Con l’adozione semi piena:

  • il minore acquista lo stato di figlio adottivo dell’adottante;
  •  per il minore, permangono tutti i diritti e i doveri verso la famiglia di origine, anche se i genitori biologici perdono la responsabilità genitoriale;
  •  il minore antepone, al proprio, il cognome dell’adottante;
  • non si crea alcun legame di parentela con i componenti della famiglia dell’adottante;
  •  l’adottato ha gli stessi diritti successori del figlio legittimo, mentre l’adottante non ha alcun diritto successorio sul figlio adottivo;
  •  il genitore adottivo ha il dovere di mantenere, istruire ed educare l’adottato; assume la responsabilità genitoriale; amministra i beni del minore, ma non ha l’usufrutto sugli stessi;
  • l’adottante e adottato hanno il reciproco dovere di prestare gli alimenti, l’uno nei confronti dell’altro.

Al Tribunale pertanto si può chiedere la c.d adozione semi piena prevista dall’art. 44 L. 184/1983 sulle adozioni primo comma lettera d). Sarà dunque l’interesse del minore a far propendere per la sua adozioni in casi particolari da parte anche di una coppia non sposata sia etero che omosessuale.
In fondo, far ricadere la scelta su una coppia sposata, perchè stabile, oggi giorno, esprime un criterio che fa acqua, perchè con l’aumento esponenziale delle separazioni e dei divorzi, il vincolo matrimoniale non è più sinonimo di stabilità.
L’art. 44, poi, non contiene alcuna discriminazione fra coppie in base al loro orientamento sessuale e se mai fosse interpretato in tale senso, si violerebbe la Costituzione.